Dicono di lei come artista

La materia vitrea e policromatica di Fiamma si rincorre e sembra fuggire verso l’alto, alla ricerca di un proprio spazio, ergendosi avvolgente in sculture di luce, che s’alzano in punta di piedi verso il cielo.

Si avvolgono su se stesse in argentee spirali che danno al vetro una spina dorsale in cui la luce si riflette in ogni direzione come i fasci di raggi solari che bucano una bianca nuvolaglia.

Il vetro, in alcune lampade, s’innalza come un cobra ammaliato da una litania ipnotica che si ripete all’infinito o si contorce in infiniti gironi verso l’estremo, e sembra voglia salire oltre ogni limite, come la babelica struttura che si disperde nei mille linguaggi che richiama.

Quando Fiamma costruisce quinte teatrali dove la luce si diffonde in riverberi verde chiaro e blu intenso, il palcoscenico che si presenta oltre quelle quinte è scenograficamente strutturato come un paesaggio lunare. E la luna e l’infinito e i ricami fossili, echi di un universo primordiale, sono i simboli che caratterizzano le lampade a forma semisferica, quasi l’artista abbia voluto creare pianeti vaganti nell’infinito, senza orbita, persi nell’ineluttabile.

Ma anche quando ci si avventura in accenni alla natura, ecco che la natura stessa è ambigua: è gialla accesa, con sfondo sabbiato, nera o rosso puro e l’erba è uno schizzo velato, destinato a svanire.

Placido Di Stefano, scrittore